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ARGOMENTO: Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata.

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 17/02/2013 23:11 #7290092

e dai che cisiamo..... una bella giornata lunga di storie ma soprattutto di foto.

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 18/02/2013 00:25 #7290129

e dai che cisiamo..... una bella giornata lunga di storie ma soprattutto di foto.

dov'è!?! non la vedo!

:mrgreen:
La vita delle persone che lavorano è noiosa. Interessanti sono le vicende e le sorti dei perdigiorno.
(H.H.)


Meglio essere folle per proprio conto che saggio con le opinioni altrui.
(F.W.N.)

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 18/02/2013 01:36 #7290135

Capitolo 6



grooveshark.com/s/Charab+Et+Tout/2TCWG2?src=5

I Tedeschi li ritrovo al tavolo subito fuori dalla porta d’ingresso alle camere dove alloggio.
Stanno facendo una tranquilla colazione muniti di laptop e ne approfitto per dare un’occhiata alle schede SD dell’ActionCam
per eliminare i filmati inutili o partiti per caso e fare un po di spazio.
Andreé somiglia vagamente a Ben Stiller e, stranamente per un tedesco,
oltre ad avere una mimica molto espressiva gesticola discretamente quando parla,
effetto forse della necessità di farsi capire per due anni tra australia, sud-est asiatico e paesi ex-sovietici.
Alexandra invece ha tratti somatici molto “affilati”:
il naso e il mento puntuti, labbra larghe e sottili che sorridono sempre, a differenza degli occhi sfilati e chiari.
Sì, sorride sempre Alexandra.
Anche quando, raccontandomi del loro viaggio, mi racconta di aver conosciuto e
fatto strada insieme al motociclista giapponese ucciso a Khita (RU) mentre campeggiava da solo,
fatto di cui sapevo prima di partire e abbastanza noto, credo, tra gli scoppiati viandanti come noi.
Sorride anche quando mi racconta di aver spedito le foto fattegli alla famiglia come ricordo.
Sorrideva anche la sera prima quando, parlando io della mia spossatezza dal Kazakhstan in poi,
mi rimproverava di non aver preso integratori salini, raccontandomi di una coppia di viaggiatori in moto di cui Lei,
seduta come passeggero, era stata ricoverata non so dove per disidratazione, pur bevendo 5 litri d’acqua al giorno.
Mi accorgo mentre parla che è solo la bocca a mantenere l’espressione del sorriso.
Gli occhi variano dal divertito al dispiaciuto, dal seccato al profondo.
Insomma tutte le sfumature che possa prendere un volto durante l’esternazione di pensieri, sensazioni e sentimenti.
Forse anche questo è effetto di due anni e migliaia di km in terre straniere.
In ogni caso hanno entrambi gli occhi buoni e subito nasce una buona amicizia, per come possono essere le amicizie in queste situazioni: fugaci e brevi ma sincere e talvolta profonde.
Dopo avermi illustrato su cosa concentrarmi in Bukhara e Samarcanda, io e Andreè facciamo un po di manutenzione sulle moto.
Cerco di pulire il cocomero esploso ma ormai si è solidificato con gioia di mosche e moscerini che girano intorno al veicolo soddisfatte.
Il filtro dell’aria è abbastanza pulito nonostante i sabbioni attraversati, e di olio non ne ho perso neanche un grammo.
Do una spruzzata di grasso per catena ai leveraggi del mono dato che cigolano un po:
forse non è il prodotto più adeguato ma è l’unico che ho.
Rimaniamo d’accordo di vederci al tramonto in un locale con terrazza di fronte alla piazza del minareto Kalon da cui, a detta loro,
si gode un ottima vista della città alla luce del sole che se ne va.
Dopo una doccia inizio il mio giro con borsetta da tranviere e fotocamera d’ordinanza.







grooveshark.com/s/Arouss+Labneh/2TCXAT?src=5

Gironzolo tranquillamente tra piazze e vie di una città antica di secoli che, anche vivendo ormai di turismo,
non è stata trasformata in una bomboniera ma vive la sua vita di artigianato e commercio.
Poco vicino alla locanda si trova la grande piazza Lab-i-Khauz , con al centro la grande vasca d’acqua,
probabilmente centro della sterminata rete di pozzi che per secoli hanno reso abitabile quest’angolo del deserto del Kizil Kum,
i cui canali sono ancora visibili qua e là per la città.
Pare infatti che l’acqua di questa rete, non essendo cambiata così spesso, fosse veicolo di frequenti pestilenze.
I sovietici misero fine a tutto ciò costruendo una rete di canalizzazioni moderne.
Non faccio il turista di giorno da quando ho visitato Astrakhan e, se ricordate,
quella città non mi ha fatto sentire accolto ne soddisfatto della mia condizione solitaria, che pure prediligo in viaggio.
Qui invece non sento così forte il limite dell’ essere in solitaria.
Anzi è come se fosse possibile entrarne ed uscirne in ogni momento.
Mi fermo a comprare delle sigarette in un chiosco che vende altro e mi sento confortato dal sorriso della bellissima venditrice,
giovane ma in attesa del secondo figlio.
Attraverso il Bazar Taki- Zargaron (credo) e visito la medressa di Ulughbek,
non restaurata ma forse per questo ancor più carica di fascino, il cui cortile è occupato da bancarelle di artigiani.











Decido che i pochi souvenir di questo viaggio li comprerò in questa città,
non fosse altro per il fatto che questa gente produce da se le cose che vende ed è vera economia locale.
Passo più avanti a dare un occhiata alla piazza dell’appuntamento di stasera.
Il minareto Kalon è davvero qualcosa d’ impressionante,
una delle poche cose che quel mattacchione di Gengis Khan risparmiò quando rase al suolo la città nel 1220,
circa un secolo dopo la costruzione del minareto.
Si tratta di una torre alta 47 mt, le cui fondamenta si infiggono per 10 mt nel suolo (contando anche lo strato antisismico costituito da canne).
Per intenderci 47 metri corrispondono agli odierni 15 piani e mezzo:
niente di eccezionale per un edificio in cemento armato, ma assolutamente notevole per una torre isolata in muratura portante.
Ancorpiù considerando che dalla sua realizzazione non ha mai necessitato di restauri.







Nell’ intento di Arslan Khan doveva essere così alto per gettare l’ombra dell’Islam su tutto il mondo.
La leggenda vuole che il Khan avesse ucciso in un litigio un Imam.
Una notte questo venne in sogno al Khan e pretese che la sua testa giacesse in un posto dove nessuno avrebbe potuto calpestarla.
Detto fatto, venne seppellito sotto la torre.
Suppongo abbiano fatto presto nella costruzione, altrimenti non credo sarebbe rimasto molto da seppellire.
Di fianco alla torre stanno, contrapposte a descrivere la piazza, la Moschea Kalon e la medressa di Mir-i-Arab.
La moschea, di nuovo attiva dal 1991, si sviluppa intorno a un cortile capace di ospitare 10mila fedeli.
Vi si respira la geometria dell’Architettura Islamica,
pura e semplice nell’impianto ma di una complessità esponenziale man mano che gli occhi salgono verso il cielo.
Cerco di stare distante dai gruppi di turisti.
Soprattutto da quelli che parlano, da ovunque essi provengano, dei cazzi loro.

















Mi accosto invece, senza dire una parola per non farmi sgamare,
a un gruppo di una decina di italiani che seguono una guida russa che parla loro della medressa antistante la moschea.
Pare che secondo la leggenda per costruire questa scuola coranica, tuttora attiva e mai chiusa neanche dai sovietici,
il Khan abbia contravvenuto a uno dei principi dell’Islam, ovvero quello che prescrive ai musulmani di non ridurre in schiavitù altri musulmani.
Servivano molti soldi per la costruzione della scuola e il Signore dell’epoca non ci pensò due volte a
vendere parte del suo popolo come schiavi agli infedeli per pagare le spese.





Ecco: questo è il motivo per cui tante volte rimango perplesso di fronte alle meraviglie del mondo, ai patrimoni dell’Unesco,
alle perle dell’Architettura, ai palazzi reali e a tutte queste manifestazioni materiali della vanità umana.
Che sia in nome di Dio, della Nazione, della Libertà, del Popolo, del Progresso.
In nome di qualsiasi cosa migliaia di persone sono state sfruttate, schiavizzate,
e fatte morire di sforzi per costruire qualcosa il cui nome rimane quello del Padrone che l’ha voluto.
Qualche volta si ricorda il nome dell’Architetto, mai si ricordano i Disgraziati morti in cambio di un pezzo di pane per onorare il volere del Padrone.
E noi ora stiamo qui davanti a scattarci foto uguali a quelle di altri,
ergendo a simboli di pace le testimonianze della prevaricazione dell’uomo sull’uomo, oltre che del genio dello stesso.
Immerso in questi pensieri svicolo verso quello che scopro essere il bazar degli orafi.
Faccio un giro rapido, visto che pare essere meno suggestivo e mi fermo per un the in una piccolissima chaikhana nel cortile antistante.



Qui non ci sono turisti e non credo ne vedano spesso.
Perfetto!

grooveshark.com/s/Qawarma/2TCWpp?src=5

Sto al mio tavolo a sorseggiare soddisfatto il mio the, dopo aver ordinato anche da mangiare.
Chiaramente incuriosisco qualcuno e inizia la chiacchierata con un paio di tipi al tavolo a fianco.
Uno di loro ha il laboratorio di tappeti lì a fianco. Parliamo di tutto un po e sono sorpreso di quanti pochi intoppi ci siano nella conversazione. Certo non parliamo di massimi sistemi, ma riesco lo stesso a portare il discorso sulla loro situazione. E grossomodo mi viene confermato quanto dettomi dal contadino il giorno prima. Sostanzialmente se non lasciano il paese per vedere il mondo è per una questione di valore della moneta. Solo i ricchi Uzbeki possono permettersi viaggi in Europa. Pare non ci siano grossi problemi per i visti. Mi confermano che lo standard di vita è abbastanza dignitoso. Certo, ci sono i ricchissimi e qualcuno è più vicino alla povertà. Ma finora non ho visto un mendicante che si possa definire tale e pare che il problema dei senzatetto non esista. Per cui o il governo li prende di notte e li brucia senza lasciare traccia, o effettivamente in questo paese c’è davvero il rischio di vivere una vita dignitosa anche senza mezzi adeguati. Certo non si può parlar male del governo o della polizia, ma non ho sentito tensione o falsità nelle loro risposte, né li ho visti ammiccare tra di loro per concordare al volo una risposta che non fosse troppo esplicita. E parliamo di un paese ampiamente servito da internet, dove il russo si insegna a scuola e quasi tutti gli operatori turistici e commercianti coinvolti in questo mercato parlano inglese. Arrivo alla conclusione che se hai poco di cui lamentarti la censura non pesa poi così tanto, evidentemente. In ogni caso, finisce a pranzo pagato e foto insieme. Quando gli chiedo l’indirizzo per mandargli la foto, mi danno l’indirizzo fisico del laboratorio di tappeti. Non hanno internet. Mi faccio scrivere l’indirizzo sul taccuino, ma inutile dire che quella foto non è mai stata ne stampata ne spedita. Càpita, ogni tanto!



Da lì è molto vicina la città regale fortificata di Ark, risalente al V secolo e abitata fin quando i Russi non la bombardarono nel 1920.
Ci giro un pò intorno prima di trovare l’ingresso, sorvegliato da due poliziotti di cui uno, gentilmente,
mi stringe la mano e mi dice di nascondermi dietro una rientranza nel muro.
Ho gia capito dove vuole arrivare e ci sto.
Appena sparisce un gruppo di turisti dall’altra parte della strada mi fa segno di entrare rapidamente e, appena girato l’angolo dopo l’arco di ingresso mi dice che non potrebbe farmi entrare perché è in restauro e pericolante, ma visto che sono solo può fare un’eccezione retribuita.
Quanto retribuita? Una decina d’euri. Va benissimo!





Allora saliamo, mentre mi descrive rapidamente i vari ambienti che attraversiamo :
la Moschea del Venerdì e la Corte per le Udienze e le Incoronazioni.







Purtroppo gli altri ambienti come gli alloggi dei ministri sono chiusi e non accessibili, ma per me va bene lo stesso.





Mi va meno bene che mi metta fretta ogni volta che mi fermo a fare foto.
Faccio però in tempo a fotografare un muro in restauro che mi rivela la tecnica costruttiva:
una sorta di muratura listata orizzontalmente di mattoni posati in verticale e armata da pali in legno, successivamente intonacata.



Arrivati di fronte a una staccionata chiusa con un lucchetto di cui possiede la chiave,
la Guardia esige il pagamento e in cambio mi da 15 minuti per osservare il panorama e fare tutte le foto che voglio.
Con la raccomandazione di non sporgermi troppo perché pericoloso(e anche perché potrebbero vedermi, credo).
Pago quanto pattuito e mi godo lo skyline imperioso di moschee, medresse e minareti sovrastante un tappeto di abitazioni basse e catapecchie.



Scatto le mie foto e rinuncio a meditare su quanto vedo: sono circa le tre di pomeriggio e il sole non picchia, frusta letteralmente.
La Guardia ringrazia me , io ringrazio lui.
Oltre a ricevere la raccomandazione di non fare con nessuno parola del favore ricevuto.
Gli do la mia parola.

Proprio di fronte c’è una moschea con davanti un grande portico.





Vado a sedermici per riposare all’ombra ma il venditore di piattini in metallo comincia a scocciarmi con la sua insistenza e allora decido di entrare.
All’interno ci sono tre uomini che discutono, seduti al centro sotto la cupola a voce normale, né alta ne bassa,
mentre un altro sta in disparte sonnecchiante.
Mi siedo appoggiando la schiena contro il muro e, coccolato dall’aria più fresca, mi addormento.
Quando mi sveglio per il mio stesso russare mi accorgo che gli uomini, accortisi del mio riposo,
stanno parlando tutti a voce decisamente più bassa rispetto a prima.
Uno mi vede sveglio e fa un cenno di saluto con la testa che ricambio con un sorriso, portandomi la mano al cuore.

Esco ristorato nell’afa e dopo 20 metri sosto in un ristorantino a farmi un paio di the, chiacchierando con un cameriere.
Ritornerò poi in locanda a prendere soldi per i souvenir che ho individuato e per la cena con i tedeschi.
Non senza prima fare qualche scatto a delle venditrici cercando, credo con scarso successo, di non essere visto.









Da una signora, parlante un perfetto inglese, comprerò due foulard in seta e cotone, uno per me uno per la mia metà, mentre per le donne di casa prenderò delle piccole lampade d’Aladino in ottone lavorate a mano.
In entrambi i casi sarà un piacere contrattare al ribasso come si può fare solo nei paesi islamici.



Mentre vado all’ appuntamento coi Crucchi incrocio i Russi, anche loro invitati.
A dirla tutta sono infastidito della cosa perché non ho nessuna intenzione di passare la serata con militaristi convinti e neanche tanto teorici.
Ma questa è, e mi tocca.
Saliamo insieme la scala a chiocciola del locale che porta alla terrazza e la vista è davvero piacevole,
ma più di questa è gradevole la sensazione dell’aria che si fa fresca mentre il sole va ad abbrustolire qualcuno più a ovest, lasciandoci finalmente respirare.



Faccio vedere i miei acquisti ad Alexandra che, sorridendo con aria di sufficienza, mi dice che ho pagati troppo i foulard.
Sorridendo le rispondo che questi soldi non mi avrebbero reso più ricco, ma forse avrebbero fatto stare meglio la signora che me li ha venduti.
Ah…. E sorride anche quando mi dice che lei non avrebbe pagato per entrare nella città fortificata, perché il tipo si è intascato i soldi.
Benedetta Crucca, e riditi sto cazzo!
Gliel’ho spiegato, ma non credo l'abbia capito, che quello non è assimilabile a pagare una mazzetta o il diavolo sa cosa.
Non c’è stato verso di convincerla.
Nel frattempo, parlando parlando, cominciano a starmi sempre più simpatici i russi.
Scopro che Slava ha solo fatto il servizio militare di leva e, viste le sue dimensioni, l’hanno spedito nei corpi d’assalto.
E non credo che all’esercito russo si possa dire di no.
Sa di non aver fatto cose buone quando era lì, ma quella era la situazione e quello c’era da fare.
Mi torna in mente il libro “Caduta ibera” di Nicolai Lilin,
una sorta di autobiografia (se pur molto romanzata) della sua esperienza nell’ esercito russo come cecchino contro i Ceceni.
L’autore condanna la guerra ma non chi la subisce:
in primo luogo i civili, ma anche guerriglieri e soldati, vittime dello stesso gioco dettato dal potere.
Ed è un gioco a cui devi giocare bene, una volta che ti ci hanno buttato dentro.
Che tu appartenga a una comunità aizzata da un capetto religioso o ad un plotone dell’esercito,
comunque c’è qualcuno che, standosene col culo al sicuro, sta disponendo della tua vita per i suoi fini.
E in fondo la storia di questo ragazzo è uguale, come quella di altre migliaia.
Avrà vissuto l’Inferno in Terra, uccidendo e cercando di non essere ucciso,
avrà visto gente squartata da granate e razzi agonizzare senza speranza.
E tra questi ci saranno stati bambini, padri, vecchi depositari di sapienza, madri.
Avrà visto cos’è uno stupro di guerra e in cuor mio spero che non l’abbia praticato.
Avrà avuto i suoi problemi a ritornare alla vita normale, avrà avuto incubi tremendi e forse ancora li ha.
Anche i suoi occhi sono buoni, piantati in un faccione da bambascione cresciuto a vodka,
con un corpo così grande e forte e capace di uccidere un uomo a mani nude,
ma evidentemente desideroso di altri e pacifici tipi di contatto,
come l’abbraccio e le pacche sulle spalle di un amico, il bacio della figlia,
la fusione insieme mistica e prosaica del suo corpo con quello della donna amata.
Nella vita da civile Slava ha una laurea in geologia e lavora per una società petrolifera russa in cerca di petrolio in Uzbekistan,
mentre la moglie e la figlia vivono a un centinaio di km da Samara.
La lezione del giorno, che credevo di aver già imparato dalle mie letture e dai miei viaggi precedenti,
è che non si può giudicare chi ha vissuto una guerra se non se ne è vissuta una sulla propria pelle.

Ci ritroviamo a scherzare bevendo un paio di birre a cui aggiungiamo del sale per recuperare quanto sudato,
io Slava e l’altro Russo, mentre i tedeschi vanno a the.
L’Altro Russo è il vice boss di una società non meglio identificata,
che a questo punto potrebbe anche essere la stessa per cui lavora Slava.
Tende a fare il misterioso e a sottrarsi agli scatti.
E’ comunque molto simpatico anche lui.
Decidiamo di andare a mangiare al ristorante della piazza Lab-i-Khauz.
I russi dicono che vogliono offrirci loro la cena e, alle mie proteste, l’Altro Russo risponde :
-“ non c’è problema: qui paghiamo noi perché siamo di casa. Quando verremo in Italia pagherai tu per noi!”
Scroscio di risate: si era appena parlato di prezzi e valore delle monete nazionali.



Il posto pare essere uno dei migliori ristoranti della città, nonché evidentemente il più pacchiano.
La serata scorre tranquilla e serena.
I Russi ci aiutano a scegliere cosa mangiare.
Beviamo tutti birra, ma quando si tratta di brindare con la vodka l’unico a non tirarsi mai indietro sono io:
la megasbronza da adolescente in Ucraina mi ha aperto gli occhi sul mondo della vodka a cena.
Ed è un mondo bellissimo: va giu, non te ne accorgi e non ti distrugge.
Diverse volte durante la cena Slava mi prende per il culo, parlando di me come gran seduttore di donne.
Questo perchè, usciti dal locale con la terrazza, una venditrice di ceramiche ha insistito per regalarmi una ciotola fatta da lei,
dopo che le avevo detto di aver gia fatto gli acquisti dei souvenir.
E’ stata davvero gentile e siamo rimasti a parlare un po. E l’abbiamo fatto in Italiano.
Lei è tagika, cresciuta in Uzbekistan, divorziata a 26 anni e parla italiano ( oltre a inglese, tedesco, spagnolo e francese)
avendolo imparato dai turisti a cui vende i pezzi che produce.
Mentre questo succedeva, avrei voluto fosse presente Samat per sapere cosa avrebbe detto.
-“Questo è il mondo reale, Samat, non il Kazakhstan!” gli avrei detto io.



Finiamo la nostra serata fumando qualche sigaretta nel cortile della locanda.







Ci ritroviamo la mattina successiva in cortile tutti allo stesso tavolo: oggi io parto per Samarcanda, i Tedeschi per Khiva.
E’ destino di questo viaggio di beccare sempre gente che va dall’altra parte, però è gia tanto incontrarla.
I Russi, soprattutto Slava, hanno un espressione un po più tristanzuola.
Tra pochi giorni non ci saranno più così tanti turisti alla locanda e immagino ci sarà da rompersi abbastanza i cabbasisi.
I Tedeschi sono attrezzatissimi e hanno caricato le moto come muli, svegliandosi almeno due ore prima.
Gli rimane da mettersi soltanto l’abbigliamento da Cross: corpetto con le armature, pantaloni con protezioni e stivalazzi da Enduro pesante.
Gli faccio notare che forse è un po eccessivo, viste le temperature.





Alexandra (sorridendo ma già lo sapete) risponde che se ti cade la moto così carica su una gamba, sono problemi non da poco.
E lo so, e so anche che io sono sportivissimo con i miei anfibi da guardia giurata e senza neanche le protezioni alle ginocchia.
Di sicuro io se cado mi sfracello qualcosa. E non è un bel pensiero.
Baci, abbracci e i Tedeschi vanno per la loro strada.





Io rimango a farmi altri tazzoni di inutile Nescafè, approfittando della compagnia di Slava che oggi andrà a lavorare più tardi.
Però arriva anche per me il momento di andare, e lo faccio con una punta di dispiacere in fondo al cuore.
Avrei voluto più tempo per girare meglio nei vicoli della città,
prendermi una sbronza seria con i miei nuovi amici russi,
farmi raccontare le storie della città più sacra dell’Asia Centrale dai vecchi del posto,
andare al mercato a contrattare fino alla morte per qualcosa di cui non ho bisogno per il gusto di farlo.
Ma il tempo è tiranno e io, anche se a migliaia di km da casa, sono suo schiavo.
Saluto Slava affondando nel suo abbraccio e vado via mentre mi riprende col suo telefono.







La strada oggi è breve: solo 250 km di asfalto buono, mi hanno detto i Tedeschi.
Vado ancora verso est, ancora col sole in faccia.
Fuori dalla città, dopo qualche decina di km passo davanti all’aeroporto nel nulla di cui mi avevano parlano i Crucchi con grande stupore,
forse perchè non abituati alle cattedrali nel deserto tipiche del sud Italia.
Sono immerso nei miei pensieri che volano a 110 sull’ asfalto buono.
Non mi rendo conto che, per quanto nel nulla, ci sono delle case dall’altra parte della strada.
Me ne accorgo solo quando, dall’ombra di un albero, sbuca con scatto felino un poliziotto che mi ordina di fermarmi.

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 18/02/2013 11:37 #7290209

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Per me, questa è la "puntata" migliore, finora.

Lo stile si affina ulteriormente. Le riflessioni, pure!

:banana: :banana: :banana:

:ciao:


Il mio vecchio SWM 125 Six Days ER sarebbe fiero di me...

"Gira che è una meraviglia!"

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 18/02/2013 15:51 #7290296

Sempre molto avvincente e bello.
Più vecchio è il toro più duro è il corno.

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 18/02/2013 17:13 #7290352

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Ahhh come leggo volentieri questi racconti... :loveit: :banana:
Alessandro - Alex-XT1200Z

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Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 20/02/2013 12:59 #7290962

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bellissimi racconti ..... col tuo modo di descrivere, sembra di essere lì. Bravo ........ continua :D
la storia siamo noi

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 14/03/2013 00:15 #7298386

cavoli mi ero perso il post e ho avuto la fortuna di leggere tutte queste puntate a fila!
grazie di condividere l'esperienza :ciao:
missilando s'impara

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 14/03/2013 00:18 #7298389

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E' da un po' che Toto e' fermo... :roll: sara' impegnato col lavoro magari.. :wink: :up:
..salta in sella al TéNéRè!!!

MEGLIOMONOCHEBOXER
Tessera n° 589

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 17/03/2013 14:51 #7299522

E sì ALe.... mi stanno veramente squartando. Sto disegnando parecchio e oggi èla prima domenica che riesco ad avere un pomeriggio libero. Mi sa che oggi posto una ountatella lunga...

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 18/03/2013 00:38 #7299766

Capitolo 6



Accosto smadonnando mentre maledico la mia distrazione.
Le guardie , come è chiaro che sia, mi contestano una velocità pari a quasi il doppio di quella limite,
supportando l’asserzione con la prova schiacciante di una mia foto con su scritto 115 kmh.
Provo a difendermi dicendo che cazzarola non ci stanno i cartelli, che ne so io qual è il limite.
Mi viene ripetuta la regola aurea trasmessami due giorni prima: se vedi case , anche una, è centro abitato e devi andare a 60kmh.
Inizia una lunga pantomima:
-“la multa sarebbe alta, ma ti sto applicando il minimo, che comunque sono bei soldi, ma tanto sei italiano, però c’è un modo per pagare meno.”-
-“ Sì sono italiano, ma non c’ho na lira, cerca di capire, tu approfitti perché hai il mio passaporto, io non sono ricco.”e tutte le amenità del caso.
Mi vengono in mente le parole di Alexandra la sera prima quando (sorridendo,è chiaro) mi diceva che loro in due anni non hanno mai pagato una mazzetta. Avevano una copia plastificata di tutti documenti e davano quelli in mano alla polizia.
In questo momento mi verrebbe da risponderle che grazie al cazzo che non hai pagato mazzette:
in due è più facile dire di no agli stronzi in divisa.
Se stai da solo sei semplicemente uno straniero contro due o tre sbirri e c’è poco da fare.
Alla fine, per stanchezza e sconforto, pago sta quindicina d’euri e ridivento proprietario della mia identità internazionale.
Ricomincio il mio viaggio ad andatura davvero turistica, cercando di leggere quest’imprevisto come la mano del fato che mi dice di godermi questi km in tranquillità, senza correre ne forzare la mano al tempo.
E così faccio, fermandomi più volte. Una volta per benzina, accolto da tutta la fila in attesa per guasto alla pompa e fatto passare davanti a tutti.



Prendo un the da qualche parte al fresco, e dopo pochi altri km intravedo una strada con un tot di piccole chaikhana che allestiscono barbecue per l’ora di pranzo.
Mi fermo da quelli che mi paiono più simpatici e vengo accolto come il Cugino d’America.
Uno dei ragazzi che gestisce mi fa segno di accomodarmi dentro.



E’ un piccolissimo bugigattolo con una porta che va su un retro, e quando gli occhi si abituano al cambio di luminosità riesco a vedere
due tavoli pieni di carne in piena macellazione: su uno un mucchio di pezzi di pollo e di manzo,
sull’altro (in realtà un frigo a pozzetto per bibite) un’ intera coscia di bovino ormai disossata.



I muri e il pavimento sono davvero lerci ma questo non ferma il languore che sale dallo stomaco, anzi pregusto un piatto fantastico .
Il tipo mi indica un tavolo all’interno per sedermi ma le mosche continuano a trovarmi interessante nonostante il tanfo dolciastro della macellazione,
di certo non invitante, e ritengo più opportuno sedermi fuori sotto un ombrellone.






Mangerò un numero imprecisato ed abbondante di buonissimi spiedi di pollo speziato innaffiati da una birra grande e gelata.
Dovrei cominciare a seguire il consiglio dei tedeschi e prendere degli integratori, ma i farmaci non sono buoni per socializzare coi locali.
Mentre consumo il mio pasto tutta l’umanità del posto si trova a passare da lì e con tutti c’è uno scambio di battute, una domanda, una stretta di mano, qualcuno più sfrontato si prova il casco.
So già che non ci sono fogne
(visto che da Rostov in poi ogni esercizio pubblico ha per servizio un baracchino di legno con un buco a terra che sembra l’ingresso degli inferi)
ma ora noto i piccoli canali a bordo strada dove finisce di tutto,
dall’acqua di cottura dei cibi all’acqua del lavaggio dei pavimenti al piscio dei bambini (ma quella è acqua santa).
Mentre sto lì a darmi in pasto alle curiosità dei villici (che poi sono le stesse in tutto il mondo)
mi viene da pensare che in fondo sono per loro una specie di Uomo dei Sogni.
Qualcuno in questo viaggio mi ha detto :-“ty romantichnyi putishestviennik!” “sei un viaggiatore romantico!”.
Per loro è molto strano che uno si spari migliaia di km da solo su una moto per venire nella loro terra.
Senza biglietti, treni o aerei, senza la sicurezza apparente di un abitacolo d’automobile il Viaggio sublima nella sua stessa essenza,
e questa gente semplice coglie il fatto associandomi ai cavalieri della tradizione timuride.
In fondo questi sono i discendenti di orde nomadi e io sono per loro una figura che arriva dritta dal passato e,
parcheggiata la macchina del tempo chissà dove, vaga tra di loro cavalcando su due ruote.
Ai loro occhi giro il mondo sul mio cavallo d’acciaio,
fedele a Tamerlano ma ribelle alle leggi che mi vorrebbero sposato e con prole da mantenere, sprezzante delle comodità domestiche come dei pericoli del mondo.
Consapevole del fatto che sono tutte cazzate autocelebrative di una mente spossata dal caldo, decido comunque di prendermi il buono di queste situazioni, ovvero la stima e l’ammirazione che mi circondano e i conseguenti rispetto e ospitalità.
La strada scorrerà tranquilla fino a Samarcanda.



L’ingresso epico che immaginavo alla meta del mio viaggio non c’è stata:
sulle mappe opensource è segnato il bed & breakfast suggeritomi dai tedeschi e ci arrivo senza perdermi neanche ad un bivio.
Lo ammetto: è stato un arrivo quasi noioso, sembrava di arrivare a casa a Centocelle dopo essere uscito prima da Studio, con tanto di traffico sulla Casilina. Percepisco l’importanza del momento dal fatto che invece dei palazzoni della periferia romana,
a guardarmi ci sono complessi di mausolei rivestiti di maioliche e Lui, il complesso del Registan.



No, di sicuro non sono a casa, sono arrivato a Samarcanda , che non è poco, e gli imprevisti e i colpi di scena già ci sono stati.
Mi merito un tranquillo taglio di traguardo, checcazzo!
Davanti al portone della locanda trovo parcheggiato un Land Cruiser attrezzato di fari e verricelli con svariati adesivi.
Quando entro, nello stretto corridoio che porta al cortile della casa, c’è una GS 1200 che ha l’aria di stare facendo il giro del mondo.
Ovunque alle pareti adesivi del Mongol Rally e altri gadget del genere.
Penso subito di aver trovato il posto giusto e penso che, essendo le quattro di pomeriggio, oggi sarà una giornata strameritatamente rilassante .
Mi accordo con il Tipo della locanda, parlante un ottimo inglese, il quale mi accompagna nel cortile dove,
sotto due lunghe verande, trovano posto grandi tavoli, panche sedie e quanto necessario per stravaccarsi in tranquillità.
Mi accomodo vicino a un polacco dai tratti asciutti e nervosi, col viso bruciato dal sole su cui brillano due occhi azzurri come il ghiaccio.
Occhi che pianta fissi nei miei mentre succhia come fosse brodo l’anguria che il proprietario ci porta, masticandola a bocca aperta mentre in inglese mi racconta del suo viaggio: la famiglia in vacanza in Ucraina, lui in viaggio con gli amici a fare i cazzoni in fuori strada attraverso l’Asia Centrale.
Hanno spaccato un semiasse e adesso stanno trovando un posto economico dove fermarsi per la riparazione. Ma la vedono nera. Dice di essere roso dai sensi di colpa perché se hai una famiglia da mandare avanti non vai a fare ste cazzate.
Dalla soddisfazione con cui racconta la sua avventura,
ho tutta l’impressione che se la stia spassando alla grande e dica queste cose giusto per salvare un minimo di dignità paterna.
Mentre continuo a ingurgitare litri di the e chili di frutta comincio a sentirmi appagato e rilassato.
Il Polacco mi dice che non dormiranno lì stanotte ma andranno non so dove.
Saluto il polacco e decido che è l’ora di prendere possesso della mia reale stanza di fianco alla reception.
E’ veramente squallida e la doccia è praticamente un tubo di gomma da cui esce un filo d’acqua,
ma per me è davvero una reggia ed è tutto quello di cui ho bisogno.
Non posso non pensare con un sorriso agli hotel 5 stelle che progettiamo a Studio.
Affido la mia catasta di panni da lavare al Tipo con la raccomandazione di farli prima possibile, che forse domattina riparto.
Cambierò idea entro un’oretta.
Dopo una doccia e 10 minuti di collasso a letto.
Mentre aspetto temperature più favorevoli a una passeggiata smantello i bagagli dalla moto e provo a dare una pulita dal succo di cocomero ormai cristallizzato sul portapacchi usando uno straccio e una pompa che sta proprio lì.
Do una sbirciata alla BMW e noto alcuni dettagli che mi anticipano qualcosa del Finlandese in giro per il mondo.
Noto subito la foto di una donna dai tratti orientali, forse Kazaka, attaccata al parabrezza.
Il nastro telato alle leve di frizione e freno mi dice della sua abitudine di guidare dove fa molto freddo,
e il fatto di averlo lasciato lì mi fa pensare che prevede di visitare posti altrettanto freddi.
Monta anche lui le k60 della Heidenau e sono consumate a metà, quindi ha fatto un bel po di strada.
Alla fine sbuca dal portone e facciamo conoscenza.
Non ricordo il suo nome, ma è secco di costituzione, pelle chiara e occhi azzurri da bonaccione.
Si presenta in canottiera e pantaloncini sfoggiando un fisico da cura ricostituente.
E’ molto socievole, come lo è necessariamente chi sta in viaggio in solitaria da molto tempo quando incontra un suo simile.
E’ partito qualche mese prima dalla Finlandia, dopo essersi licenziato dall’ambìto posto di ispettore di produzione (o qualcosa del genere) alla Nokia,
aver venduto tutto e preparato la moto per un giro del mondo.
Viaggia con pochissimi vestiti e una delle borse laterali è quasi piena di apparecchiature fotografiche.
Sta facendo sosta a Samarcanda per qualche giorno, mentre gira per uffici in cerca di un modo per prolungare il visto:
vorrebbe fare un giro in un fantomatico mercato di ricambi per veicoli dove pare si trovi di tutto.
Nei suoi piani c’è di attraversare il Kirgizistan per poi stare una settimana in Cina, dove lo aspetta un fixer che gli farà da guida.
Il Finnico diventa subito il mio eroe.
Stimo profondamente la sua scelta di mandare tutto a fanculo e partire per vedere il mondo senza nessuna certezze,
anzi forse proprio perché di certezze non ne ha e se ne fotte.
Dice che per ora non gli interessano le sponsorizzazioni:
BMW lo ha contattato e sono in mezza trattativa, ma per ora si limitano a seguirlo con interesse.
A lui non fotte molto di quest’argomento. Per ora non vuole che questa cosa diventi un lavoro con tutti gli obblighi che ne conseguono.
Vuole solo godersi il viaggio e girovagare con i suoi tempi.
Gli chiedo come si trovi a fare queste strade con quel bisonte di moto, come si comporta nella sabbia.
Con mia sorpresa mi risponde che sì è pesante ma non quanto sembra, è abbastanza maneggevole e anche quando, inevitabilmente, si appoggia a terra nei passaggi difficili è facile rialzarla perché i cilindri sporgenti evitano che vada giu orizzontale.
A differenza della mia Tenerè che si corica proprio e col cazzo che riesco ad alzarla da solo.
Ha dormito nel deserto in Kazakhstan e mi dice di non essere stato da solo.
Capisco la foto sul parabrezza e l’espressione vagamente triste che proprio non riesce a dissimulare.
Ok, è lui il vero uomo dei sogni, quello che vaga sul suo cavallo d’acciaio fottendosene di tutti e pure di Tamerlano.
Non posso che nutrire ammirazione profonda per una scelta che io, dopo anni di sogni al proposito, non ho ancora avuto il coraggio di mettere in atto.
Sì, senza dubbio il mio Uomo dei Sogni è lui.

Rimango a parlare per un po’ con il mio nuovo eroe dei nostri rispettivi viaggi ,
dopodiché vado a fare il mio giro da turista al Registan, che sta proprio lì vicino.
Vista l’ora prossima al tramonto visito il complesso con la luce peggiore per fare foto.
Non è un problema viste le migliaia di immagini che girano di questa meraviglia.
La luce del crepuscolo da sicuramente un’aria inconsueta ai volumi tappezzati di lucide maioliche,
la cui dominante azzurra è mitigata dal giallo del sole che inizia a scendere.
Pago il biglietto anche se Andree mi ha spiegato come entrare senza pagare:
ho voglia di lasciare dei soldi che serviranno al restaturo di un’Architettura tra le più affascinanti del mondo e non mi preoccupano i quasi 10 euri dell’ingresso.













Giro per gli ampi cortili con un senso di svuotamento dentro.
Mi sento come nei pomeriggi universitari che seguivano un mega esame, come statica o progettazione.
Quei momenti di gloria personali formalizzati da un 30 sul libretto dopo settimane di chiusa a produrre disegni e progetti,
sistematicamente messi in discussione dal prof e dai suoi scagnozzi per mesi, che alla fine vengono ripagati dal voto massimo.
Quella sensazione del tipo: “Ok, ce l’ho fatta. E ora? Ora niente: è finita e mi annoio”.
Quei momenti in cui si dovrebbe riposare ma si ha addosso ancora troppa adrenalina per farlo.
Quando sembra che tutti gli sforzi siano stati finalizzati a una soddisfazione inconsistente ed effimera.

Mi siedo su una panchina guardandomi intorno un po’ spaesato, pensando che la vacanza è ormai finita.
Non riesco però a focalizzare fino alla fine il pensiero:
sento una musica provenire dal fondo del viale pedonale che passa davanti al complesso e, attraverso fontane e aiuole, porta a una sorta di campetto coperto. La musica è intervallata dalla voce di una presentatrice e mi incammino pensando di trovare un concerto di piazza.
Hanno la stessa pensata due francesi che alloggiano alla mia stessa locanda qui a Samarcanda e stavano nella stessa locanda a Bukhara.
Ci salutiamo con un cenno della testa quando arriviamo davanti al campo coperto.
Che non è un campo sportivo, ma una sorta di spazio per eventi.
C’è un sacco di gente seduta a tavoli circolari e vestita di tutto punto.
Sulla sinistra c’è il palco degli artisti, che perlopiù canteraano su basi registrate o andranno direttamente di playback.
Sulla destra c’è il palco con un tavolo addobbato a cui siedono un uomo e una donna: lui con abito nero, lei in bianco:
un matrimonio! Un mega matrimonio!



Dev’essere qualcuno di importante, tipo la figlia del sindaco o il figlio dell’industriale della città:
a occhio duecento invitati, almeno tre cameramen con tanto di giraffa e un botto di fotografi.
Mi giro verso uno dei francesi, quello vestito con pantaloncini e maglietta rosa
(come cazzo ti viene di andare per l’Uzbekistan con una maglietta rosa?) e gli dico:
-“ Ora dobbiamo trovare il modo di farci invitare!”
Il Franzose Rosa non fa in tempo a rispondermi che un signore all’ingresso ci fa segno di avvicinarci e ci porta, tutti e tre, a un tavolo con una decina di uomini.
Siamo ufficialmente invitati al matrimonio dell’anno a Samarcanda.
Gli uomini ci fanno subito spazio e i camerieri ci portano piatti, posate e bicchieri.
Io e il Franzose Rosa gustiamo tutto quello che la tavola offre, mentre il Franzose Quattrocchi non beve ne mangia praticamente nulla per via della dissenteria massacrante che lo sfinisce da quando è sbarcato dall’aereo.
Vengono portate bottiglie da mezzo di ottima vodka che finiscono con rapidità nell’ordine di un brindisi ogni due bocconi.



Ma il cibo è sostanzioso e l’effetto dopo una decina di bicchieri è una sana euforia da sfogare quando ci dicono che è ora di ballare.
La musica è di un tamarrume sconvolgente: non solo musica tradizionale uzbeka con basi campionate o dance commerciale in uzbeko.
Su tutte spiccano i Ricchi e Poveri, Toto Cutugno e addirittura la Lambada.



Noi andiamo a fare i cazzoni in pista e subito siamo circondati di nuovi Màifrènd che vogliono immortalarsi insieme a noi e sapere da dove veniamo.





La cosa interessante è che ogni volta che ci mettiamo a ballare dove ci stanno donne,
gli uomini vengono a prenderci e ci portano a ballare nel gruppo degli uomini.
Niente, è definitivamente così che funziona: i masculi cu i masculi, i fimmini cu i fimmini.



I ragazzi ballano esibendosi in passi complicati, o credendo di fare ciò, in ogni caso mettendosi in mostra.
Le ragazze fanno quelle che non cacano i ragazzi manco di striscio ma intanto li guardano con la coda dell’occhio e ridacchiano con le amiche.
Prima o poi qualcuno chiederà la mano dell’altra e in qualche modo convoleranno a nozze.
Mi stupisce questo bisogno di somigliare agli occidentali con i loro costumi,
che inevitabilmente cozza con gli usi che tuttora pretendono una divisione tra i sessi anche in queste occasioni.
Si percepisce che durerà ancora per poco, ma anche se controvoglia si continua a fare così.





Mentre stiamo lì a bere e ballare vediamo anche altri ospiti della locanda fatti entrare alla festa e sottoposti alla stessa ospitalità.
Veniamo a sapere da un’amico dello sposo che il matrimonio è stato combinato e i due ragazzi, pur non essendo d’accordo, hanno dovuto piegarsi alle volontà delle famiglie. E’per questo che hanno la faccia serissima, quasi da funerale.
Che stride pesantemente con le nostre, quando tocca a noi farci le foto al loro tavolo.



La festa finisce di colpo quando tutti lasciano il posto, seguendo gli sposi che, a piedi, escono nella piazza a farsi riprendere mentre camminano per mano.
Che pare si usi, visto che becchiamo un’ altra coppia fresca di cerimonia che si fa riprendere da tre cameramen e fotografi che gli girano intorno.
Solo che loro sono felici perché sorridono a trentadue denti scambiandosi occhiate da palumbelli.
Torniamo in massa alla locanda e concludiamo la serata a chiacchierare mentre continuiamo a bere birra,
raccontando la serata agli ospiti che non erano presenti.

L’indomani a colazione rivedo un po tutti.
Anche un francese bassino con la faccia da calabrese che alla festa sembrava il più scocciato.
Sentendo il mio accento mi chiede da dove vengo e Carramba! È originario di Petrizzi, un paese a pochi km dal mio.
Dopo 20 giorni di russo e inglese mi ritrovo a parlare in calabrese a Samarcanda.
Ed è veramente uno spasso ascoltare il mio dialetto parlato con cadenza francese.
Lui è figlio di genitori calabri e ha passato molte estati della sua vita sul mar jonio.
Si trova lì in bici insieme alla moglie e un paio di amici e quella sera stessa partiranno per tornare a casa, le bici sono gia impacchettate.
Il Finnico mi dice che passerà la giornata tra gli uffici della polizia per il visto e la locanda per aggiornare il blog dopo 15 giorni.
Oltre che per prendere contatti con altri motociclisti con cui dovrebbe incontrarsi sul Pamir, se riesce ad entrarci.
Faccio la mia giornata da turista girovagando tra Registan (di nuovo ma dall’esterno) e vecchie moschee e medresse ormai cadenti.

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Ascolto dalle guide storie di principesse rinchiuse, di infedeltà, di architetti presuntuosi e di punizioni atroci ed esemplari.
Non sono sicuro di ricordare bene ma pare che Tamerlano, tornando dalla guerra, abbia scoperto il tradimento della moglie bellissima consumato (mi sembra, ma forse è il mio orgoglio corporativo) con l’architetto di palazzo.
Scoperto il fatto, uccise lui e rinchiuse lei in un minareto dal quale si lanciò disperata.
Per evitare che si ripetessero situazioni di questo tipo il conquistatore impose che le donne andassero in giro col volto coperto,
visibile solo ai propri uomini tra le mura domestiche.
Osservo in silenzio i turisti italiani e mi rendo conto che il più delle volte siamo orribili in gruppo all’estero.
E c’è un sacco di gente che non ha idea del perché scelga una destinazione piuttosto che un’altra.
Come sempre evito di socializzare con i miei compatrioti , preferendo perdermi nel mercato tra spezie e frutta:
C’è chi ha un banco sotto le grandi tettoie in acciaio reticolare, divise per generi merceologici, e chi si dispone alla rinfusa con ceste e banchetti mobili.












Scambio una chiacchiera con un signore e il suo vicino da cui compro peperoncino e the.
Il vicino, più giovane, mi mostra orgoglioso la foto dei figli sul telefonino.
Da una signora compro un pesce fritto che mangerò seduto su un marciapiede, godendomi il vociare delle contrattazioni.





Non posso fare a meno di notare che la maggioranza dei commercianti sono donne.
E’ decisamente un mercato di venditrici.
E a pensarci bene era così anche a Bukhara, dove ho notato che anche alcuni lavori come la manutenzione delle aiuole e dei giardini è affidata alle donne, infagottate all’inverosimile per proteggersi dal sole e dalla polvere.
Decisamente in queste città il commercio è donna.
Mi sorprende come in un paese islamico così lontano dall’occidente, molto più della Turchia che già nel nostro immaginario è oriente, le donne abbiano una libertà di movimento pari a quella degli uomini: guidano tranquillamente, scherzano, alzano la voce.
Certo questa è la città, ma anche nei paesini non ho visto situazioni molto diverse.
Qui vanno in giro per lo più in abito tradizionale, fatto di una casacca su pantaloni a sigaretta, molto spesso a fantasie vivaci.
Si muovono sicure nelle contrattazioni, nel parlare con gli uomini.
Non hanno l’aria di essere sottomesse per istituzione.

















E alcune sono davvero molto belle, con tratti somatici particolari: pelle turca modellata con lineamenti orientali.








Passo qualche ora tra banchi di frutta e chaykhane a guardare una umanità tutto sommato rilassata.
Si contratta, si vende e si acquista, si imbroglia e si viene imbrogliati ma , per quanto si tratti di sopravvivenza, nessuno pare perdere le staffe più di tanto.





Dopo il mercato e prima di tornare alla locanda, una visita veloce al complesso dei mausolei molto importante.
Il cuore dello shah-I –zinda è il mausoleo di Qusam- ibn- Abbas, cugino del profeta Maometto, responsabile della diffusione dell’islam in queste aree. Successivamente anche Tamerlano e la sua discendenza iniziarono a seppellire qui i loro defunti, dando origine a questo “viale dei mausolei”.















Ascolto un po svogliato guide locali raccontare storie a turisti inglesi, ma sono davvero stanco e ho bisogno di andare al fresco della locanda.
Prima però cerco di comprare questi benedetti integratori.
Provo in una farmacia grandicella, ma i tipi dentro cercano di spacciarmi vitamine per bambini a 60 dollari.
Ritento in una più piccola dove trovo tre donne, la proprietaria e due amiche.
Capisce subito cosa voglio e mi vende una confezione di pastiglie a 5 euro.
Sto lì un quarto d’ora, mentre le signore mi raccontano di un grande concerto di Toto Cutugno a Tashkent con migliaia di persone in piazza ad ascoltarlo.
Non riesco a convincerle del fatto che Celentano abbia avuto dei colpi di genio di cui Cutugno è sempre stato carente.
Nulla da fare: Cutugno è Cutugno e loro lo adorano, tutte e tre.
Dopo essermi beccato tre buona fortuna da altrettanti sorrisi passo a comprare frutta in quantità che mi godo beatamente sotto il portico della locanda prima di fare manutenzione alla moto.
In una ferramenta mi hanno regalato del fil di ferro che ho preso apposta per la targa.
E il fissaggio funziona. Il vero problema adesso è un altro.
Ho perso l’aggancio della valigia destra. Heavy duties utilizza delle C in plastica, che si avvitano dall’interno valigia, per fissare le borse al telaio.
Per paura di spanare le filettature non ho stretto a sufficienza e mi sono perso la C.
La valigia è rimasta incastrata attraverso le viti, rimaste al loro posto impedendo che una scatola da 39 litri piena zeppa di indumenti e ricambi volasse per strada.
Fisso anche quella con quattro o cinque giri di fil di ferro.
Mentre sono lì a fare queste operazioni sento una voce di donna che mi parla in italiano.
La tipa ha una cinquantina d’anni, dai tratti somatici decisamente ariani e vestita di bianco.
Sembra appena uscita da un romanzo di viaggi di inizio novecento , così chiara di carnagione e così candida nell’abbigliamento.
E’ un miracolo non si sia ustionata dopo due settimane in uzbekistan in piena estate.
Nonostante qualche segno dell’età ancora una bella figliola.
Milanese ma vive a Londra da anni, mi racconta della sua passione per i viaggi.
Iniziamo a parlare dell’argomento e poterlo fare finalmente in italiano mi da un senso di rilassatezza.
Durante la conversazione esce fuori che le dispiace che questi posti si stiano occidentalizzando,
perdendo le tradizioni e il fascino che fino a poco tempo fa conservavano integralmente.
Le rispondo che ci sono comunque gli aspetti positivi e la condizione femminile è uno di questi.
Se poi il progresso arriva anche senza nessun esercito che esporti democrazia a suon di missili, beh meglio ancora.
Il discorso ci porta a parlare del Finnico e del suo viaggio:
a mio avviso non ha ancora dato un senso preciso a questo girovagare e forse per questo ha l’espressione un po scocciata,
mentre secondo lei ci sta che uno molli tutto e per un po vada dove lo portano gli eventi.
Delle due l’una: o io sono rimasto con la testa in occidente, o lei ha una visione da operetta del viaggio.
Scoprirò in breve tempo che la risposta giusta è la prima.
Decidiamo di mangiare alla locanda, insieme agli altri viaggiatori .
I Francesi sono partiti, ma in compenso sono arrivati altri ciclisti.
Passiamo la serata con due coppie (spagnoli e olandesi) di giramondo a pedali incontratisi lì per caso.
Arriverà anche il Finnico che, dopo una giornata dalla polizia, non ha risolto nulla per il visto.
E’ una serata piacevole e mi godo la fine dell’ultimo giorno da turista.
Mentre aspetto che il sonno venga,focalizzo meglio il pensiero che facevo sulla panchina la sera del mio arrivo.
Ci ho messo venti giorni ad arrivare qui. Ora ne ho dieci per tornare. Domani si va ad Ovest.




A colazione sono l’unico a sparasi due macchinette di caffè con la moka:
neanche l’italiana ormai londinese ne ha voluto, abituata all’ acqua sporca che lì passano per caffè.
La locanda ferve di preparativi di gente che va via.
Gli olandesi vanno via un po prima di me.
Il Finnico continua ad avere la sua aria malinconica mentre ci salutiamo abbracciandoci.
E mentre lo facciamo ho l’impressione che si sia rotto le palle seriamente di vagare da solo.





Ora, per tornare verso casa l’opzione più rapida sarebbe quella di rifare la stessa strada per risbucare in Kazakhstan nello stesso punto,
ripassare da Qulsary e rientrare in Russia da Astrakhan.
Mi incammino di buona lena in quella direzione convinto che la mia strada sarà quella.
I miei programmi vengono alterati per l’ennesima volta al primo posto di blocco in uscita da Samarcanda.
Appena fermato tiro fuori passaporto e documenti e inizio a chiacchierare con il poliziotto di turno che parla un buon inglese.
In tono cordiale mi chiede da dove sono entrato e anche da dove prevedo di uscire.
Gli dico di aver deciso stamattina di uscire dalla stessa frontiera di ingresso e lui cambia espressione.
Mi chiede cosa ho dichiarato in ingresso riguardo alla frontiera di uscita.
Gli rispondo di non aver dichiarato nulla.
“Wait a moment” mi dice mentre entra nell’ufficio con i miei documenti.
Ne riesce pochi minuti dopo dicendo che a Beyneu ho dichiarato che sarei uscito a Tashkent.
Di colpo con un flashback mi torna in mente la scena esatta:
quel giorno, all’ultimo controllo documenti insieme ai tedeschi del rally, in situazione concitata e caotica, il funzionario si ostinava a parlare in un pessimo inglese mentre io mi ostinavo a esibire un pessimo russo.
Quando gli ho detto che forse sarei andato a Tashkent credevo mi avesse risposto qualcosa del tipo
–“ Ci devi andare, è una bellissima città. Io vengo da lì” e non capivo la sua insistenza nel chiedermi la conferma sul fatto che ci sarei andato o meno.
Alla fine per tagliare corto gli avevo risposto che sì, ci sarei andato a vedere la sua splendida città.
In realtà mi stava chiedendo conferma che sarei uscito da lì e lui ha annotato questo sulla mia pratica di ingresso.
Chiedo al poliziotto che fare: se provarci lo stesso ad uscire da Nukus oppure non rischiare e andare da Tashkent.
A suo avviso è meglio fare come involontariamente dichiarato:
trovassi degli stronzi potrei correrei il rischio di elargire diverse mazzette o peggio ancora potrei finire con il tornare indietro verso Tashkent
con la concreta possibilità che i visti scadano uno dopo l’altro, ritrovandomi così clandestino.
Ringrazio per la solerzia nei controlli e inverto la marcia verso la direzione opposta.
Vado ancora verso Est.
A questo punto dovrò uscire da Chinaz, che è il posto di frontiera per i veicoli poco più a sud,
e percorrere le terribili (a detta di Samat)statali che in Kazakhstan avevo evitato per fare prima,
quindi passando da Aralsk e Aktobe per poi puntare verso la frontiera russa ad Astrakhan.
In realtà non mi dispiace affatto di quest’imprevisto e ho un’ottima scusa per fare il giro lungo.
L’unico problema è il poco tempo. E’ non è un problema da poco.

Attraverso i 200 km o poco più prima del confine godendomi per l’ultima volta profumi e colori di questo splendido paese.

















Intorno a mezzogiorno mi fermo in una piccola città per un caffè.
Preferisco un ristornate un po’ defilato nel tentativo di evitare le domande dei curiosi che oggi mi stresserebbero più del solito.
Il ristorante è addobbato per l’ora di pranzo e mi ricevono le figlie del proprietario che subito mi portano a fare la sua conoscenza.
Mi invita a sedermi con lui e iniziamo a chiacchierare.
Naman E’ secco, prossimo alla 60ina, con occhi e modi placidi.
Quando parla scandisce bene le parole con voce bassa ma ferma.
E mi ascolta attentamente quando parlo il mio russo da sopravvivenza, ripetendo le mie frasi con altre parole per confermarmi che ha capito.
Per questi suoi modi mi fa venire subito in mente mio padre, sebben Naman abbia più di vent’anni in meno.
Quando mi chiede, inevitabilmente, della mia famiglia mi sento già in confidenza quanto basta per confessargli che mi sento un po’ in colpa per il fatto che sto in giro a migliaia di km da casa invece di passare del tempo con mio padre ormai avanti con gli anni.
Lui mi risponde di non avere rimorsi perché sto vedendo il mondo e mio padre non può che essere contento di queste mie avventure.
Parla con parole semplici e con frasi essenziali ma cariche di sostanza.
Questo basta a farmi sentire meglio: come spesso accade è un perfetto sconosciuto ad alleviare la coscienza da rimorsi e dubbi.
Bevo il mio nescafè gentilmente offerto e altrettanto gentilmente declino l’invito di fermarmi per il pranzo vista la fretta che ormai mi è salita in corpo .
Lui sembra un po rattristarsi di questo, e anche io vorrei passare un po di tempo con lui. Fosse solo per la calma che mi infonde.
La foto con lui è una di quelle a cui tengo di più.



Altri controlli entrando nella regione di Tashkent e poco prima del confine vedo davanti a una chaykhana due XT 125 acchittate da viaggio con targa inglese.
Mi fermo chiedendo al tipo che cucina la carne all’esterno dove siano i proprietari delle moto.
Mi indica il cortile interno. Ci trovo due signori intorno alla 50ina,Nick e Kevin, che stanno lì a fare il Mongol Rally.
Oggi entrano anche loro in Kazakhstan per poi, a Shimkent, girare verso Almaty e proseguire in Mongolia.
E’ stato davvero un caso incontrarli, dato che sono stati fermi per 15 giorni a Bukhara in attesa della frizione di ricambio per la moto di Kevin .
Ci diamo appuntamento alla frontiera.
Li raggiungerò dopo aver consumato il mio pasto in compagnia di una bambina curiosa che la madre non ha smesso un minuto di cazziare perché stava a suo avviso disturbandomi.
Ed eccoci qua alla frontiera: il Minchia del Deserto e i Due Idioti all’ Estero (two idiots abroad è il nome del loro blog/sito).
Nell’attesa che aprano i cancelli facciamo meglio conoscenza, parlando delle rispettive moto e attrezzature e prendendoci per il culo a vicenda.
I ragazzotti sono simpatici e facciamo un bell’ incontro al vertice tra humor inglese e cazzoneria mediterranea.



Oggi ho la conferma di quanto sia tosta la frontiera tra questi due stati.
Ci mettiamo quasi 5 ore tra attese, controlli e tentativi di estorsione.
Soprattutto sul lato kazako.
Il militare di turno ci fa aprire borse e valigie continuando a chiederci “Dov’è il kalashnikov?”
Quando gli indico la sacca contenente la tenda sgrana gli occhi e mi chiede “davvero? E tiralo fuori!”.
Gli direi che è proprio cazzone, mi limito a far notare a Kevin la posizione fragile che abbiamo in quel momento:
un idiota completamente ignorante e magari semianalfabeta potrebbe decidere di privarci della libertà per una battuta o la voglia di alzare due soldi.
Il fatto di essere in tre ci rende forti quando, uno ad uno, completiamo le pratiche di ingresso in un ufficio, accompagnati da un funzionario con la faccia da truffaldino che alla fine ci chiede dei soldi.
Altrimenti, dice, il computer non funziona e loro non trasmettono i dati alla polizia.
Questo dopo che già il funzionario preposto aveva messo i dovuti timbri sui documenti (ovviamente chiedendomi dei soldi, ma in maniera educata).
Stiamo insieme e non ci lasciamo mai soli e io per quel che posso faccio da interprete per loro.
Il Corrotto attacca bottone insistendo col tentativo d’estorsione che interrompe però quando gli dico che
sono fidanzato con la figlia del console italiano a Mosca.
E’ una palla clamorosa ma devo averla detta così bene che il Tipo mi guarda stupito dicendo
- “Allora sei ricco?”-
- “No, la mia fidanzata è ricca. Io sono solo bello.”-
Questo basta per convincerlo che forse è meglio lasciarci perdere.
L’ultima rottura di cazzo ce la danno i militari intorno alle moto quando uno di loro, prima che andiamo via,
insiste col dire che è impossibile che non abbiamo contanti da dichiarare, dobbiamo tirar fuori i soldi.
Alla fine un superiore gli urla, dall’edificio degli uffici, di lasciar perdere e farci andare.
E cazzarola! Sono o non sono il genero del console?

Ci fermiamo subito dopo il cancello a cambiare soldi.
E’ una piccola e caotica kasbah a cielo aperto.
Veniamo immediatamente circondati da cambiavalute e astanti.
Appena cambiati i soldi sono io a mettere fretta agli inglesi per andarcene: lì c’è troppa gente e ci guardano come se fossimo quelli ricchi.
Si percepisce chiaramente che non siamo più in Uzbekistan e i soggetti intorno a noi hanno le pupille a forma di dollaro.
Loro convengono e andiamo via attraversando le due kilometriche file di TIR ai lati dello stretto rettilineo.
Mentre la attraverso ho l’impressione che quella coda sia una sorta di villaggio permanente di cui continuamente cambiano gli alloggi: gli autisti arrivano lì sfiancati da giorni di guida sulle strade Kazake e stanno lì ore, forse giorni, in attesa dell’apertura dei cancelli.
Vi si vede gente in ciabatte, scalza, in mutande, mentre si lava alla bell’e meglio.
Intravedo dietro i camion gruppi di camionisti che si radunano per accendere un fuoco e cucinare qualcosa.
Superate le colonne di veicoli la strada si perde nella steppa senza soluzione di continuità mentre il sole cala tingendo tutto di arancio,
come se ce ne fosse bisogno.

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Io sono contentissimo: finalmente ho trovato la mia piccola carovana ed è bello dopo tutta questa solitudine avere dei compagni di viaggio,
ancora più preziosi perché sappiamo già che sarà solo per pochi kilometri.



Decidiamo di comprare un po’ di cibo al primo villaggio e di accamparci per la notte nella steppa lì vicino.
Io suggerisco delle zone alberate per ripararci dal sole.
Nick mi fa notare che se ci sono alberi c’è acqua e quindi zanzare.
Optiamo per un pascolo completamente sgombro a un km dalla statale.
E’ pieno di cacca di capra ma chi se ne fotte: è secca come pietra.



Montiamo le tende mentre il sole va giù e con il loro fornello iperspacchiometrico mettiamo insieme la carne di cavallo in scatola comprata poco fa con il riso in scatola al manzo che mi porto dietro da Beyneu.
Ne esce fuori un piatto buonissimo che mangiamo sotto le stelle, nel nulla, mentre cazzeggiamo e ci raccontiamo delle nostre vite.
Kevin ha una concessionaria di scooter e moto di piccola cilindrata mentre Nick fa un lavoro che non ho ben capito ma ha che fare con l’immobiliare.
Dice che per le leggi che ci stanno in Europa può farlo solo in Inghilterra.
Hanno entrambi moglie e figli e si stanno sparando questo rally di beneficenza con minime sponsorizzazioni.
Sono attrezzati bene senza dubbio, forse un po troppo carichi per i motori che hanno. Affidabili ma sempre 125.
Gli parlo del mio lavoro e del ritardo clamoroso che ho accumulato:
E’ il 22 Agosto e il 3 Settembre dovrei essere a Studio.
Di certo lo Studio non chiude senza di me, visto che siamo in 12 a lavorarci, ma non brillerei per affidabilità e mi seccherebbe molto.
Anche loro sono in ritardo mostruoso, 15 giorni, ma non hanno problemi.
Nick dice:
-“ non mi preoccupo, sono il capo. Ho uno staff che lavora per me.”
–“ Nick, io mi preoccupo: sono io lo staff!”
-“ oh, capisco, comunque dovresti farcela con un paio di giorni di ritardo”
-“magari!...”
Andiamo a dormire prestissimo, dopo un paio d’ore di buio.
Sappiamo che intorno a noi ci sono piccoli villaggi e centri abitati, ma dal punto in cui siamo non si vede nulla.
Ho montato la tenda senza il telo sopra, sia per il caldo sia per poter vedere il cielo attraverso la rete del camino.
La vacanza è finita e da domani inizia un lungo ritorno che sarà, già lo so, molto impegnativo.
Però non me ne fotte niente di studiare le tappe e le distanze per stasera.
So solo che ci sono migliaia di km tra me e la mia vera vita, e sono da fare in una decina di giorni.
Ma a questo ci penserò domani.
Ora mi godo questo cielo saturo di stelle e il silenzio assoluto che ci circonda.

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 18/03/2013 11:06 #7299835

L'ultima foto è da mozzare il fiato...
Sei mitico! :banana: :banana: :banana:
"La moto è come una ragazza. Dipende dalla carburazione: grassa va piano; magra, si spacca"

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 18/03/2013 19:09 #7299998

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Complimenti, un bellissimo e suggestivo report. In alcune circostanze perfino commovente. Bravissimo, non aggiungo altro :ciao:

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 18/03/2013 19:18 #7300010

continua, continua, continua, continua, continua, continua, continua....
:mrgreen:
La vita delle persone che lavorano è noiosa. Interessanti sono le vicende e le sorti dei perdigiorno.
(H.H.)


Meglio essere folle per proprio conto che saggio con le opinioni altrui.
(F.W.N.)

Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata. 19/03/2013 00:09 #7300131

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Qui hai raggiunto la maturità del viaggiatore e la serenità dello scrittore... O viceversa! 8)

Ci sono libri molto più noiosi.

Bravo!

:ciao: :book: :ciao:


Il mio vecchio SWM 125 Six Days ER sarebbe fiero di me...

"Gira che è una meraviglia!"
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